Dipendenti insoddisfatti, 9 su 10 vogliono cambiare lavoro

Dopo le «Grandi dimissioni» emerse nel periodo della pandemia e dopo il «grande pentimento» di chi aveva lasciato il posto di lavoro per poi ripensarci, arriva nel mondo dei lavoratori il «grande distacco». Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio HR Innovation practice, questo fenomeno colpisce sempre di più i lavoratori rassegnati all’insoddisfazione, che rinunciano a cercare condizioni migliori e spengono progressivamente le proprie energie, rimanendo in azienda ma riducendo al minimo il proprio coinvolgimento. I «quiet quitter» – coloro che fanno il minimo indispensabile senza essere emotivamente coinvolti – rappresentano oggi il 14% della forza lavoro totale, ovvero un lavoratore su sette, in aumento rispetto all’anno precedente.
Peraltro, l’11% dei dipendenti ha cambiato lavoro nell’ultimo anno e il 30% dichiara di volerlo fare nei prossimi 18 mesi, ma la quota di chi sta effettivamente sostenendo colloqui è scesa dal 58% al 52%. In parte la difficoltà è legata all’incertezza di fondo del contesto economico.
«Tra i lavoratori italiani si rileva una crescente frustrazione, attribuibile alla percezione di instabilità del mercato del lavoro, accentuata da conflitti e crisi globali e da retribuzioni spesso inadeguate al costo della vita», spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Hr Innovation practice del Politecnico di Milano. «Così, oltre al benessere e all’equilibrio, che continuano ad essere le priorità delle persone, si sta affiancando una crescente ricerca di sicurezza e protezione». La crescente instabilità economica, i timori di recessione e l’aumento del costo della vita rendono più rischioso cambiare occupazione, facendo sentire molte persone «bloccate» e mentalmente disconnesse. È significativo il calo di chi si è pentito dopo aver cambiato lavoro, passato dal 56% al 20%. La ricerca dell’Osservatorio Hr Innovation practice del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno «Tracciare il percorso del cambiamento: AI, nuove strategie e competenze per il futuro del lavoro», conferma che nel 2025 persiste un profondo malessere tra i lavoratori italiani. Solo il 17% dei professionisti è pienamente coinvolto e appena il 10% sta bene nelle tre dimensioni fondamentali del lavoro: fisica, relazionale e mentale. In parallelo, si diffonde una crescente ricerca di protezione e stabilità economica. Nella scelta di un nuovo impiego, dopo il benessere – che rimane la principale motivazione per cambiare – tornano in primo piano criteri più tradizionali, come le tutele contrattuali, la retribuzione e i benefit. Resta però la difficoltà di trovare le persone giuste, con il 78% delle organizzazioni che segnala criticità nell’assumere nuovo personale, un dato che in circa la metà dei casi è in aumento nell’ultimo anno. L’aspetto più problematico è la difficoltà nel trovare candidati con competenze tecniche adeguate. Circa una nuova posizione su quattro riguarda professioni digitali, con particolare richiesta per profili specializzati in AI, Big data management, Data analytics e cybersecurity. «In questo contesto, la sfida principale per le Direzioni Hr nel 2025 è lavorare sul senso e il significato del lavoro, cercando di ovviare al senso di precarietà crescente – dice Corso –. In un’epoca di grande trasformazione, tra ricambio generazionale e rivoluzione tecnologica, l’Hr deve tracciare la rotta del cambiamento delle organizzazioni, che oggi passa da AI, nuove strategie e nuove competenze». Nelle aziende in cui l’organizzazione del lavoro si fonda sulle competenze delle persone piuttosto che su fattori tradizionali, la percentuale di lavoratori che sta bene sale dal 10% al 18% e quella dei lavoratori pienamente coinvolti e motivati balza dal 17% al 42%. corriere.it