Mariti pubblicano foto delle mogli su Facebook, migliaia di iscritti Meta rimuove il gruppo

Ignorantia legis non excusat, «la legge non ammette ignoranza». Una locuzione latina che riassume il principio di diritto sulla presunzione di conoscenza della legge. In poche parole, chi la infrange non può giustificarsi dietro l’ignoranza dell’esistenza della stessa. Eppure, i partecipanti al gruppo Facebook «Mia moglie» non sembrano preoccuparsene, pur celandosi dietro l’effimero “Partecipante anonimo” che non nasconde la propria identità agli amministratori del gruppo e, nel caso, anche alle forze dell’ordine. Il gruppo è oggetto di un’ondata di indignazione per l’uso a cui è destinato. Al suo interno vengono pubblicate immagini intime di donne perlopiù ignare, esposte agli occhi e ai commenti di altri partecipanti. A segnalare il gruppo – e a denunciarne l’esistenza alla Polizia Postale – sono stati il profilo «No Justice no peace» e quello di Carolina Capria, «L’ha scritto una femmina», su Instagram. Nel giro di 48 ore sono cresciute esponenzialmente le critiche nei confronti di chi pubblica – e guarda -foto che ritraggono donne in costume, mentre cucinano, sedute a gambe incrociate. Senza aver chiesto loro nessun consenso. Utenti privati, associazioni femministe e non, persino diversi esponenti politici: ciò che veniva condiviso in questo spazio digitale ha suscitato così tanta indignazione da diventare nel giro di poche ore un caso. E una battaglia (vinta) grazie alla mobilitazione collettiva.
Il gruppo conta 32mila iscritti. Ed è stato travolto di segnalazioni, che hanno portato alla chiusura solo nella tarda mattinata di martedì 20 agosto. «Abbiamo rimosso il Gruppo Facebook (Mia Moglie❤❤❤) per violazione delle nostre policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti.
Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme. Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine» ha dichiarato un portavoce di Meta.
Negli ultimi giorni si sono letti post di utenti anonimi e non anonimi che avvisano i membri del gruppo di aver segnalato il gruppo, denunciato lo stesso alla postale e contattato le partner e i parenti dei partecipanti stessi. Sono centinaia i post indignati e bisogna scorrere diversi messaggi prima di poter giungere ai primi contenuti incriminati. Perlopiù sono scatti rubati che ritraggono donne di ogni età: mogli, compagne, amiche, persino parenti degli autori del post e probabilmente anche sconosciute che sono capitate per caso davanti alla fotocamera di uno degli utenti partecipanti. Le foto le immortalano in abbigliamento intimo, al mare, in auto. I più «coscienziosi» tentano di rendere irriconoscibile la donna fotografata; celano con effetti o scarabocchi volti ed eventuali tatuaggi. Altri non se ne preoccupano. Altri scatti ancora sono invece di coppie consapevoli.
Le immagini vengono poi commentate dagli altri componenti del gruppo. Chi segnala parla di stupro virtuale, di violenze vere e proprie. Andando a guardare la legge, dal punto di vista legale condividere immagini di questa natura può essere un reato. Il revenge porn è stato inserito nel 2019 nel codice penale, all’articolo 612 ter e riguarda la «diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti», senza che sia stato dato il consenso da parte di chi vi appare. Ma anche questo non sembra turbare gli iscritti. A chi chiede se sono a conoscenza di compiere un possibile illecito, molti rispondono in malo modo, con insulti. Il gruppo è attivo dal 2019 ed è sempre stato pubblico, ciò significa che chiunque ha potuto o può vedere chi ne fa parte e cosa viene pubblicato.
Intanto i membri del gruppo «Mia moglie» stanno correndo ai ripari: questa volta si parla di gruppi privati con una solerte «selezione all’ingresso» e spazi su Telegram meno accessibili e più «protetti» per chi vuole farne parte. La chiusura di una pagina può essere necessaria, ma non pone fine ad un fenomeno le cui ripercussioni legali non sono così celeri. Complice anche il lassismo delle piattaforme nella moderazione. corriere.it