Sifilide in Italia, aumentano i casi ecco come proteggersi e come curarla

La parola evoca mali di altri tempi: la sifilide è una malattia a trasmissione sessuale che in passato ha mietuto tante vittime eccellenti, da Carlo VIII a Paul Gauguin, ma negli ultimi decenni è scomparsa dai radar perché grazie all’avvento dell’antibiotico penicillina, efficacissima nel curarla, si è pensato fosse un problema da relegare nel dimenticatoio o tutt’al più circoscritto ai Paesi a basso reddito. Sbagliato: i dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control mostrano che negli ultimi anni c’è una tendenza al rialzo nel numero dei pazienti sia in Europa, sia in Italia.
«Nel nostro Paese vengono notificati oltre 1.500 nuovi casi l’anno e si ipotizza un sommerso almeno altrettanto numeroso», conferma Niccolò Gori, dermatologo della Fondazione Irccs Policlinico Universitario Gemelli di Roma e membro della Società italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST). «La sifilide è la terza malattia venerea più diffusa dopo clamidia e gonorrea, anch’esse in crescita negli ultimi due decenni per colpa di una progressiva tendenza a una minor protezione durante i rapporti sessuali. Oggi non c’è più la grande paura degli anni ‘80 per l’Hiv perché anche quell’infezione può essere curata e resa cronica, così le persone sottovalutano i rischi dei rapporti non protetti; in più è aumentato il ricorso ad alcol e droghe durante i rapporti se ssuali, il cosiddetto “chemsex”, che riduce la capacità di controllo e può portare a proteggersi di meno. Sono a rischio soprattutto le persone con molti partner sessuali e gli omosessuali, perché la modalità di rapporto può portare a maggiori perdite ematiche e favorire il contagio. L’uso corretto del preservativo però eviterebbe questa e le altre malattie sessualmente trasmesse». Il risultato dello scarso ricorso al condom è una lieve ma costante crescita della sifilide, nove volte più frequente fra gli uomini rispetto alle donne e più comune nella fascia d’età fra i 25 e i 34 anni. Se la prevenzione primaria è fallita e si è contratta la malattia, però, riconoscendola presto può essere curata in maniera molto efficace, come spiega Gori: «La presentazione classica della sifilide primaria, che si manifesta da 10 a 90 giorni dopo il contagio, è un’ulcera con i bordi duri, non dolorosa, nel punto dove si è venuti in contatto con l’agente patogeno (il batterio Treponema pallidum, ndr); talvolta i linfonodi dell’area sono ingrossati e in molti casi c’è una regressione spontanea in qualche settimana.
«La sifilide secondaria tipicamente si presenta con un’eruzione cutanea con macchie rosse pruriginose, malessere, debolezza e febbre che compaiono dalle sei alle otto settimane dopo il contagio e possono durare fino a due anni, con un andamento cronico-recidivante in cui i sintomi evidenti si alternano a periodi di benessere. In queste prime due fasi della sifilide basta un’endovena di penicillina per risolvere definitivamente il problema: dalla sifilide oggi si guarisce, ma va riconosciuta», sottolinea il dermatologo.
«A volte non accade perché i sintomi non compaiono e la malattia resta latente per manifestarsi solo come sifilide terziaria, più grave: riguarda il 20-30 per cento dei pazienti e provoca lesioni al sistema nervoso, al fegato, alla milza, all’apparato cardiovascolare con conseguenze anche gravi. A volte però i pazienti non fanno caso ai segni e ai sintomi delle prime due fasi, non pensano possa trattarsi di sifilide: ancora oggi non sono così infrequenti i casi gravi perché la malattia è stata trascurata e non diagnosticata. Farlo è molto importante anche perché la sifilide è un fattore di rischio per l’Hiv e va a braccetto con molte altre malattie sessualmente trasmesse: proteggersi durante i rapporti sessuali è l’arma migliore per tenerle tutte alla larga», conclude Gori. Da dov’è arrivato il «mal francese», come veniva chiamata la sifilide in Italia (ma in Francia la chiamavano il «mal napoletano»)? Ancora oggi gli esperti non si sono messi d’accordo sull’origine di questa malattia che per la prima volta è stata descritta dal medico militare veneziano Marcello Cumano, nel 1495. Stando ad alcuni è vera l’ipotesi Cristoforo Colombo, secondo cui il batterio è approdato nel Vecchio Continente «al seguito» dei marinai del navigatore, altri ritengono sia arrivata con gli schiavi africani portati da colonizzatori spagnoli e portoghesi. A prescindere dai «vettori», alla fine del XV secolo la malattia era già in Europa e dopo averla battezzata sifilide (la chiamò così Girolamo Fracastoro, medico e filosofo amico di Niccolò Copernico) se ne è riconosciuta quasi subito l’origine sessuale: ciò ha reso i metodi di contrasto un mix fra interventi medici molto variegati e leggi che cercavano di impedirne il dilagare puntando sulla natura «peccaminosa’ del male» come la chiusura o il confinamento dei postriboli nel XVI secolo. Per diagnosticare la sifilide basta un esame del sangue in cui si facciano due specifici tipi di test utili anche a distinguere fra le diverse fasi di malattia, che non sempre hanno un andamento standard. L’andrologo Fabio Leva dell’Istituto Santagostino di Milano specifica che «quando si hanno rapporti occasionali con partner diversi è importante sottoporsi regolarmente a screening completi per le patologie a trasmissione sessuale, includendo anche la sifilide che si trasmette anche attraverso i rapporti orali che spesso non sono protetti». La sifilide può essere agevolmente curata nelle prime due fasi, ma n on esiste ancora un vaccino preventivo: «Il suo sviluppo è stato finora ostacolato dalla difficoltà di far crescere in vitro il batterio che provoca la malattia, ma oggi alcuni problemi sono stati superati e inoltre grazie alle nuove tecnologie è possibile ottenere la sequenza completa del genoma a partire da campioni prelevati dai pazienti», conclude Leva. corriere.it