Mark Rothko, ecco la nuova mostra alla Fondation Louis Vuitton
di Malika Medouni
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
PARIGI “I suoi quadri sono come i miei film: parlano del nulla… con esattezza» dichiarò Michelangelo Antonioni quando incontrò Mark Rothko nel 1962. Parlare del nulla, questa è una formula paradossale perché il nulla è difficilmente dicibile e rappresentabile. Questo è ciò che fa Mark Rothko, sotto i riflettori in una grande retrospettiva alla Fondation Louis Vuitton a Parigi fino al 2 aprile 2024.
Il percorso cronologico della mostra inizia con i suoi dipinti figurativi. Negli anni trenta, Mark Rothko dipinse ritratti e scene urbane ma senza ricercare il realismo. La figurazione tende già all’astrazione, i personaggi si occultano fino all’obliterazione. Nella serie “Untitled (Subway)”, scompaiono nei grandi rettangoli degli ingressi della metropolitana di New York, si fondono con i pilastri della banchina, svaniscono dietro le grandi infrastrutture moderne. C’è una forma di assenza nella presenza, il nulla traspare nella figurazione. Questa compresenza del nulla e del pieno è un modo di parlare della solitudine dell’uomo moderno che vive nell’anonimato e nel vuoto delle grandi città. Invece di rappresentare una New York piena di vita, Mark Rothko sceglie di mostrare una città noiosa e poco accogliente. “Non cercate l’allegria nelle opere di Mark Rothko”, avverte una guida nella sala.
Il pittore era molto sensibile ai drammi del suo tempo, alla crisi economica del 1929 poi alla seconda guerra mondiale. I dipinti mitologici, presenti nella seconda sala della mostra, suggeriscono che il nostro secolo è violento quanto i miti greci. “Il Presagio dell’Aquila” (The Omen of Eagle) esprime la preoccupazione del pittore per la violenza scatenata della guerra. Il tema della composizione è tratto da Agamennone, tragedia di Eschilo del V secolo a.C. Il volo di due aquile è interpretato come presagio della vittoria dei Greci sui Troiani. Nel 1942 l’aquila corrispondeva all’emblema della Germania nazista che allora minacciava il mondo. Quando Mark Rothko passò all’astrazione nel 1948, i suoi dipinti non erano privi di contenuto: per usare l’espressione di Antonioni, continuano a parlare. La non figurazione non è non rappresentazione. Questo è il motivo per cui Mark Rothko rifiuta le etichette di “pittore astratto” o “colorista”. I dipinti del periodo cosiddetto “classico” degli anni cinquanta (esposti nella quarta sala) non imitano nessun oggetto del mondo reale: sono grandi rettangoli colorati racchiusi nelle tele monumentali. Ma continuano a metterci di fronte al “ossessione di essere mortale” secondo la formula del pittore.
A differenza del periodo figurativo che instaurava l’assenza (dell’individuo moderno) nella presenza (della città), il periodo astratto ci invita a contemplare una presenza nell’assenza. Le sue opere parlano del nulla con esattezza. Ci mettono di fronte al vuoto, ma questo vuoto non è sinonimo d’oblio, è un’apertura verso una presenza. Mark Rothko utilizzava spesso la metafora della finestra per descrivere le sue opere: “A volte apro una porta e una finestra” racconta. Ha anche paragonato i suoi dipinti ai “templi greci”. Anche per questo i suoi quadri sono monumentali: perché siamo “dentro”. Anche i dipinti oscuri della fine della sua vita, dai Seagram Murals ai Blackforms, esposti nelle ultime sale della mostra, aprono uno spazio nell’oscurità a forza di contemplarli. Mark Rothko ci invita a un’esperienza religiosa compatibile con il ritiro degli dei così caratteristico della modernità. Sognava di costruire una cappella lungo la strada, all’interno della quale ci sarebbe stata una sola opera d’arte da contemplare. Alla fine della sua vita realizzò 14 dipinti per una cappella ecumenica a Houston, in Texas. A Houston o Parigi, Mark Rothko sperava di metterci di fronte alla nostra fede o alla nostra assenza di fede.
La mostra “Mark Rothko” è visitabile alla Fondation Louis Vuitton fino al 2 aprile 2024, ogni giorno dalle 10 alle 20. Notturna il venerdì alle 21. Prenotazione fortemente consigliata.