Giovani rinunciano allo smartphone, “Siamo antisocial leggiamo e suoniamo la chitarra”

«Passiamo semplicemente il tempo». Jameson Butler, capelli castani con ciocche tinte di biondo, è seduta con i suoi amici diciassettenni sui gradini della Central Library di Brooklyn, a Grand Army Plaza, in una ventosa domenica newyorchese. Qualcuno ha con sé un libro, nessuno ha lo smartphone. «D’estate, portiamo pure le amache», ci dice la sua amica Logan Lane. Le legano agli alberi di Prospect Park, il grande parco davanti alla biblioteca. Logan, Jameson, Odile Zexter-Kaiser e l’unico maschio, Max Frackman, hanno rinunciato agli smartphone scegliendo di usare telefonini «a conchiglia» popolari vent’anni fa e che oggi sembrano reperti archeologici. Sono i ragazzi del Luddite Club, il club dei luddisti, un gruppo di adolescenti nato alla Murrow High School. Anche col freddo, la pioggia, la neve, si incontrano qui ogni domenica e, dopo aver cercato inutilmente una loro presenza online, li abbiamo trovati imbattendoci in loro, come si faceva una volta. «Stiamo aspettando un paio di altri amici». Quando i ritardatari arrivano, si addentrano nel parco, per sedersi in cerchio, a disegnare, leggere, suonare la chitarra. Secondo il New York Times, il nome Luddite Club l’ha inventato la mamma di Logan: deriva da Ned Ludd, l’operaio che nel 1799 in Gran Bretagna distrusse un telaio, dando vita a un movimento che reagì con violenza all’introduzione delle macchine nell’industria. Adesso il termine indica chi rifiuta la tecnologia. Per questi ragazzi è una questione di salute mentale. Il loro antisocial network (come lo ha definito una rivista studentesca) ha una portata rivoluzionaria per una generazione che non ha mai vissuto senza social media. Logan ha avuto il suo primo cellulare a 10 anni, il primo smartphone a 11: subito ha creato un profilo Instagram. Si addormentava alla luce del cellulare, ammirava le bambine «popolari»: carine, le prime ad avere i fidanzati, vestite bene. Si sentiva strana in confronto a loro. Da una parte voleva emularle, dall’altra rifiutava di dover essere «popolare». In seconda media ha iniziato a pubblicare un mucchio di foto strane nelle sue Stories (un esempio: i suoi piedi nella vasca da bagno). Si chiama «casual Instagram»: fai finta di postare «la qualunque», come se non ti importasse, mentre quello era il periodo in cui «le importava più». Perdere il cellulare si è rivelata una liberazione: da allora ha cercato di disintossicarsi da Instagram, chiedendo alla migliore amica di cambiarle la password per sfuggire alla dipendenza… Aveva 14 anni quand’è iniziata la pandemia e il suo uso dei social è decollato. Si è resa conto di non riuscire più a distinguere le cose che faceva perché le piacevano da quelle che faceva solo sapendo che ne avrebbe postato le foto. Nella vita le sembrava di recitare per essere all’altezza della sua persona social. Allora ha cancellato tutti i profili e annunciato al papà (che lavora nel campo delle tecnologie) che abbandonava lo smartphone. Durante la pandemia, il tempo che gli adolescenti passavano tra videogiochi, messaggini, social, videochat, film e tv in streaming, è raddoppiato, arrivando a circa 8 ore quotidiane (senza contare le lezioni scolastiche virtuali) secondo uno studio su 5.400 ragazzi della rivista medica americana Jama Pediatrics, che sostiene che le abitudini potrebbero essere cambiate in modo permanente anche dopo il Covid. Un rapporto dell’agenzia federale Centers for Disease Control and Prevention su 17mila ragazzi delle superiori mostra che le femmine sono affette dal disagio molto più dei maschi. Le stesse ricerche di Facebook hanno rivelato i danni che il confronto sociale continuo online provoca nell’immagine del proprio valore, della propria bellezza, del proprio successo tra le ragazze. Prima i genitori di Logan non credevano che sarebbe durato. Poi sono stati loro a insistere che tenesse almeno un vecchio telefonino. All’inizio Logan non sapeva cosa fare col suo tempo. Poi ha sentito cambiare «la chimica del cervello». Ha preso in biblioteca «Collages» di Anais Nin. Ha iniziato a cucirsi i pantaloni da sola. Si sentiva più creativa e produttiva, però anche più sola. Non avere lo smartphone era «la morte sociale» (benché fosse raggiungibile via sms e email). Finché una sera a un concerto punk a Prospect Park le hanno presentato Jameson: anche lei aveva un cellulare a conchiglia. Non si sono scambiate il numero, ma due settimane dopo si sono incontrate per caso in biblioteca. Armate di sidro e ciambelle, sono andate a chiacchierare nel parco: è stato il primo incontro del Luddite Club. Certo, per chiamare un uber devono telefonare ai genitori. Ma Logan non prova più l’ansia sociale di prima. Le sembra di aver trovato una parte di sé che perderebbe se mai tornasse online. corriere.it