Botte alla moglie e violenza, panico nell’aula di tribunale
Alla lettura della sentenza Giancarlo Mastropasqua resta immobile nella «gabbia» a vetrate dei detenuti, in aula. Sono 11 anni di carcere (dove già si trova) per violenza sessuale e maltrattamenti alla moglie. Più dei 9 anni e 3 mesi chiesti dal pm Paolo Mandurino. Si aggiungono agli 8 già rimediati dall’imputato il 13 giugno per quattro rapine a mano armata per cui anche lei, monzese di 27 anni, è stata condannata a 2 anni, 5 mesi e 10 giorni. Tutto in primo grado. Passano pochi minuti con il collegio di giudici tutto al femminile ancora in aula, il suo avvocato chiede di parlargli, due agenti della penitenziaria si avvicinano, lui sferra un calcio all’indietro alla sedia su cui era seduto, spaccandola, gli agenti lo bloccano per le braccia e lui scalcia verso il vetro. Servono rinforzi per placarlo, con la mamma e la sorella che cercano di calmarlo («fermati») e la madre della vittima che la porta fuori dall’aula. Così facendo, l’imputato 36enne, di Casirate d’Adda, conferma quello che il collegio della presidente Patrizia Ingrascì (a latere Laura Garufi e Francesca Mazza) ha scritto nelle motivazioni contestuali alla sentenza. Le giudici gli hanno negato la concessione delle attenuanti generiche chieste dal difensore Antonio Impellizzeri, che aveva invocato l’assoluzione dall’accusa di violenza sessuale e il minimo della pena per gli episodi di maltrattamenti e lesioni. Non le merita, si legge nella sentenza, «in assenza di elementi di favorevole valutazione, considerato altresì che l’imputato non ha manifestato nel processo alcun segno di ravvedimento e risulta gravato da precedenti condanne caratterizzate dalla violenza alle persone (estorsione e lesione personale), significative di un’indole incline all’uso della forza». Alla parte civile, assistita in aula dall’avvocato Federico Vido e ammessa al gratuito patrocinio, l’imputato deve 15 mila euro di provvisionale oltre al risarcimento che andrà liquidato in sede civile.
Su un dato concordano accusa e difesa: «Era un rapporto tossico». Il legale del 36enne è arrivato a definire la relazione «a tratti depravata» tentando anche di minare la credibilità della 27enne, evidentemente dalla sentenza senza riuscirci. L’unica cosa che le giudici hanno escluso è l’aggravante della violenza assistita dalla figlia di 3 anni. L’abuso sessuale è l’accusa più grave, solo per quella il calcolo è di nove anni con le aggravanti dell’uso di un coltello e del legame coniugale. Ed è anche quella più battagliata, in un contesto di gelosia anche di lei, «quasi ossessiva» ammise il pm, innamoramento e nozze a stretto giro, chat erotiche. I fatti contestati vanno da agosto 2022 ad aprile 2013. Stringi stringi, quel giorno, l’11 maggio 2023, lei disse sì a un incontro sessuale e poi no. Il collegio deve avere ben valutato che cosa accadde in mezzo. «Lei lo assecondò nei messaggi perché aveva l’esigenza di recuperare le sue cose e la sua auto», aveva sostenuto il pm. La parte civile raccontò che tutto cambiò quando disse al marito che si era rivolta a un avvocato per la separazione: «Mi tappò la bocca con del nastro adesivo e mi picchiò». Il resto è nella sentenza in cui si parla di un coltellino puntato al collo prima del rapporto sessuale. Alla donna «ormai completamente soggiogata dal suo carnefice — si legge nelle motivazioni —, non rimaneva che fare finta di assecondarlo nei suoi desideri di una ripresa del rapporto affettivo per farsi condurre fuori casa, in un luogo pubblico dove avrebbe potuto chiedere soccorso senza ricadere nel turbine della violenza». Lei raccontò anche di essere stata legata a un albero quando era incinta, poi abortì. Secondo la difesa, non esistono carte che certifichino la gravidanza. Lui nega: «Le avrò dato al massimo tre schiaffi». I lividi, a suo dire, erano le cicatrici degli interventi chirurgici. Per quelli la umiliava chiamandola «cerniera», ha ricordato il pm. Ai carabinieri che lo arrestarono per le rapine, credendo che fosse stata lei a tradirlo, disse: «Quando esco ammazzo quella e poi mi consegno». corriere.it