Veroli, chirurgo amputa una gamba e la appende al balcone dell’ospedale

di Alfredo Gabriele

In Ospedale a Veroli si amputavano, in caso di necessità, anche le gambe e senza anestesia prima del 1849. Cento anni dopo, nel 1949 circa, arrivò un primario chirurgo a Veroli, il quale pubblicizzò le sue capacità appendendo un arto, amputato ad un paziente, alla ringhiera di un balcone esterno soprastante il portone del nosocomio. L’evento suscitò solamente la curiosità tra i passanti, mentre lo stesso primario dovette affrontare altre “pendenze” giudiziarie per merito della tenacia del presidente dell’Ospedale prof. Antignani. Fu, il loro, uno scontro tra due della Campania arrivati a Veroli, cioè tra due “forestieri”, di cui si potrebbe parlare in seguito.

Un altro episodio invece risale al 1844.

“Esiste in questo Spedale un contadino che un mese fa ebbe fratturata una gamba. Egli ha di presente (il 20 Ottobre 1844) una grave febbre. Il Signor Chirurgo curante è d’avviso che questa febbre sia primitiva e non già dipendente dal guasto che il malato presenta nella gamba e quindi vorrebbe che io tentassi a curarlo. Ma io non convengo seco lui intorno alla natura della febbre medesima e ritengo invece che dessa sia tutta sintomatica e secondaria, onde ho ricusato di metter mano in questa cura. Ora siccome l’infermo è piuttosto gravato che no e merita un prontissimo soccorso, io prego la S.V. (=il Presidente dell’Ospedale)affinché per il bene di questo poveretto, per l’onore del Pio luogo (= l’Ospedale) e anche per mia garanzia chiami prontamente un altro chirurgo di consulto, il quale decida del vero stato di questo infelice …”.

Questa richiesta era stata inoltrata dal Primario Medico Dottor Vincenzo Rossetti in data 20 Ottobre 1844 e venne esaudita in tempi brevissimi se già il giorno dopo due colleghi di Frosinone, il Dott. Giuseppe Ciatti ed il Dott. Antonio Rossi, furono designati membri di una Commissione che andasse a Veroli a definire la natura “medica” o “chirurgica” della febbre; costoro erano stati autorizzati ad “ispezionare” il malato ed a stendere una relazione, sulla base della quale si dovevano poi addebitare le spese del consulto ad uno dei due colleghi verolani, al Medico od al Chirurgo; in particolare a che dei due aveva errato nella diagnosi.

L’intervento dei due medici fu anche sollecito, come la richiesta del pagamento che i due avanzarono per spese di viaggio ed onorari, secondo il seguente prospetto: “Per accesso e recesso- A) del Medico: scudi 0,3; B) del Chirurgo: scudi 0,2; C) Per relazione: scudi 0,3; D) Per Vetture: scudi 08,80.” I colleghi di Frosinone non sapevano che in Veroli si era stabilito di addebitare le loro pretese e gli altri costi del consulto al collega verolano il quale, sulla base della loro relazione, fosse apparso dalla parte del torto nella diagnosi. Ma proprio su questo argomento i consulenti erano stati poco chiari e fu chiesta una precisa delucidazione.  Nella loro successiva relazione, del 3 Novembre 1844, aggiunsero:

“…Non fu possibile accozzare prove sufficienti per derivare la malattia del noto soggetto in Veroli da causa evidente e certa. Non ci furono caratteri distintivi del riassorbimento del pus preteso dal medico, né tampoco quelli del contagio tifoideo sostenuto dal chirurgo, per cui non potendosi giudicare quella febbre né secondaria né primitiva fu giocoforza concludere che dessa sopravvenuta alla frattura e impiaga mento del poplite era una vera complicanza di incognita ed incerta provenienza ed essendo perciò mista la malattia in questione doveva trattarsi promiscuamente da ambedue i professori suddetti, dei quali nessuno aveva ragioni sufficienti per abbandonare od intraprendere la cura in discorso, essendo ambedue tratti in inganno per la dubbiezza delle cause corrispondenti. Non avendo potuto conoscere di più perché il soggetto morto del preteso Tifo più non esisteva e perché l’ascesso non aveva lasciato nessuna traccia sensibile (seppure in realtà sia esistito) debbo restringermi a replicare il medesimo giudizio già avanzato nell’altra mia del 22 Ottobre decorso in evasione…”.

Il povero contadino era dunque deceduto e per,… sua colpa! l’Amministrazione dell’Ospedale di Veroli non poteva passare il conto della consulenza né al Medico né al Chirurgo, pur essendo stati ambedue, per loro contrasti, i responsabili dell’inerzia terapeutica, della morte del paziente e del viaggio da Frosinone dei due colleghi. La relazione li salvò comunque dal pagamento di quelle spese, se non salvò il malato il quale, secondo la relazione di questi ultimi, doveva d’ambo i professori curarsi come di già dopo la nostra gita colà incominciarono a fare … “; ma era ormai troppo tardi! Riesaminando il carteggio possiamo ora affermare che dei due verolani il dott. Vincenzo Rossetti aveva visto giusto escludendo l’infezione tifoidea, e questa sua giusta diagnosi conferma la sua eccellente preparazione, quale risulta anche dal curriculum suo descritto nei verbali del Consiglio comunale di Veroli.

Egli fu l’unico medico condotto venuto ad esercitare a Veroli dopo una “Laurea honoris causa” conseguita in giovanissima età presso l’Università di Bologna e dopo un tirocinio presso l’Arcispedale di Firenze. Più oscura era la figura del Chirurgo, il quale in questa circostanza avrebbe potuto effettuare una tempestiva amputazione dell’arto: un intervento praticato spesso, prima e dopo di lui, nell’Ospedale della Passione di Veroli. Questo risulta dai registri di spesa, nei quali il buon amministratore del tempo annotava spesso, tra le uscite: per la fornitura della gamba di legno a [….] che gli venne amputata.” (una voce di spesa ricorrente per pagamenti ad un falegname).