Trattativa Stato-mafia, assolti Marcello Dell’Utri e i carabinieri

Assolti gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e assolto l’ex senatore Dell’Utri: la trattativa non fu un reato. Prescritta la minaccia al governo Berlusconi nel 1994 da parte del boss Leoluca Bagarella, condannato a 27 anni di carcere per il ricatto contro il governo precedente, in carica tra il 1992 e il 1993. La sentenza d’appello ha ribaltato così il giudizio di primo grado che aveva bollato come reato il comportamento degli uomini delle istituzioni entrati in contatto con i rappresentanti della mafia al tempo delle stragi. Il clamoroso verdetto della corte d’assise d’appello di Palermo ha quindi cancellato ciò che in dieci anni la procura e la corte di primo grado avevano costruito con l’indagine e il processo sulla presunta trattativa.

La sentenza di primo grado, pronunciata dalla corte d’assise il 20 aprile 2018, aveva stabilito che la minaccia allo Stato avanzata da Cosa nostra con le stragi del 1992 e del 1993 – un vero e proprio ricatt o: o si allenta la pressione antimafia o gli attentati proseguiranno – era stata «veicolata» da uomini delle istituzioni che in questo modo rafforzarono e resero più concrete le pretese dei boss: da un lato i carabinieri del Ros, gli ex generali Antonio Subranni e Mario Mori, e l’ex colonnello Giuseppe De Donno; dall’altro l’ex senatore Marcello Dell’Utri, che dall’inizio del ’94 avrebbe veicolato il messaggio mafioso al nuovo governo guidato da Silvio Berlusconi. Il quale, chiamato a deporre dai difensori di Dell’Utri, si è avvalso della facoltà di non rispondere in quanto indagato nel procedimento connesso sui mandanti occulti delle stragi del 1993.

Tutti condannati: Mori e Subranni a dodici anni di carcere come dell’Utri, De Donno a otto, insieme al boss Leoluca Bagarella (28 anni) e al medico legato a Cosa nostra Antonino Cinà (12 anni). La trattativa Stato-mafia era condensata in queste condanne, scaturite per un verso dagli incontri tra i carabinieri e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Cianciminonell’estate del 1992, e per l’altro dai collegamenti tra Dell’Utri e la mafia, con il boss Vittorio Mangano e non solo, che hanno contribuito anche alla condanna definitiva dell’ex senatore per concorso esterno in associazione mafiosa. Tra gli imputati c’era pure un altro politico, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ulteriore presunto tramite del ricatto; anzi il promotore della trattativa, secondo l’accusa, nel timore di essere una vittima designata delle cosche. Lui però ha scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato, ed è stato assolto «per non aver commesso il fatto» in tutti i gradi di giudizio. 

Tra la sentenza di primo grado e quella di oggi l’assoluzione di Mannino è diventata definitiva, e l’ultimo verdetto è stato abbastanza categorico nel contraddire la ricostruzione formulata dai pubblici ministeri; sia quelli della Procura, in primo grado, che quelli della Procura generale, in corte d’appello. Una sentenza che s’è posta in contrasto anche con la decisione della corte d’assise che in primo grado aveva condannato gli altri imputati. 

Per la corte d’assise che ha dichiarato colpevoli i vertici del Ros, la proposta di «trattativa» dei carabinieri a Ciancimino ebbe l’effetto di «far sorgere o quantomeno consolidare il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del governo della Repubblica sotto forma dirichieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi». 

Per i giudici che hanno assolto Mannino, invece, l’iniziativa del Ros fu nient’altro che «un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria, realizzata attraverso la promessa di benefici personali al Ciancimino di assicurare, ove possibile, le richieste nell’esclusivo interesse di Ciancimino stesso; tale operazione si proponeva, mediante la sollecitazione a un’attività di infiltrazione in Cosa nostra del predetto Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il fine della cattura di Totò Riina, interrompendo così la stagione delle stragi». 

Due ricostruzioni e due valutazioni opposte, che racchiudono il nodo della presunta trattativa tra i boss e alcuni rappresentanti delle istituzioni al tempo delle stragi: ne scaturì un reato, agevolando il ricatto mafioso allo Stato, oppure no? E’ lo stesso nodo che ha dovuto affrontare la corte d’assise d’appello presieduta dal giudice Angelo Pellino, seduto accanto al giudice a latere Vittorio Anania e ai sei componenti della giuria popolare.

L’assoluzione definitiva di Mannino è una delle novità intervenute durante lo svolgimento del processo d’appello. Insieme a nuove testimonianze come quelle proposte sia dall’accusa (ulteriori pentiti su presunti aspetti misteriosi delle stragi e dei contatti tra mafia e istituzioni) che dalla difesa (ad esempio la testimonianza dell’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro, che ha raccontato i suoi dialoghi con Paolo Borsellino tra le stragi di Capaci e via D’Amelio, e l’interesse del magistrato assassinato per le inchieste sulla corruzione e gli appalti intrecciate con quelli milanesi). 

Due anni e mezzo di dibattimento in appello hanno prodotto la nuova sentenza. Pronunciata secondo i principi che il presidente Pellino aveva specificato nell’aprile 2019, alla prima udienza. Per replicare a chi si lamentava che quello sulla trattativa Stato-mafia è stato un processo alla storia anziché a singoli imputati accusati di specifici reati, il presidente chiarì: «Può accadere che in un processo che riguarda fatti molto eclatanti la riscrittura di un pezzo di storia di un Paese sia un effetto inevitabile dei temi trattati e del lavoro delle parti processuali che hanno concorso a scavare nei fatti; ma lo scopo del processo d’appello è verificare la tenuta della decisione di primo grado sotto la lente d’ingrandimento dei motivi d’appello. Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, bensì persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati. Questo è l’impegno della corte, e mi sento di rassicurare le parti». 

La sentenza di oggi è figlia di quell’impegno, e le motivazioni spiegheranno come ci si è arrivati. corriere.it