Serena Mollicone, «Caviglie strette con il filo di ferro, capii che non era stata uccisa nel bosco di Anitrella»

Serena con il capo avvolto in una busta di plastica a coprirne interamente il volto. Serena con le caviglie strette una all’altra da un filo di ferro, proprio sopra le Dr Martens blu come era in voga per i 18enni anche in provincia. Serena con le braccia legate dietro la schiena, l’ombelico scoperto sotto la maglietta fucsia a fiori e l’orrore di quelle larve già annidate tra i polsi e il giubbino marrone calato malamente sulle spalle, ormai inutile a proteggerla dal freddo terreno del bosco di Anitrella, località Fonte Cupa. «Abbiamo sofferto tanto in questi anni, sopportiamo anche il dover rivedere queste immagini purché aiutino a far emergere la verità», dice Antonio Mollicone, lo zio della ragazza di Arce uccisa nel 2001, dopo che nell’aula di corte d’Assise allestita nell’Università di Cassino è stato proiettato il video del ritrovamento girato dai carabinieri. L’ex maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, accusati di omicidio, assistono impassibili all’udienza in cui i testi del pm Beatrice Siravo iniziano a introdurre il decisivo tema dei depistaggi seguiti al delitto.

Per primo parla il comandante della stazione dei carabinieri di Fontana Liri, Gabriele Tersigni, oggi in pensione, il primo ad accorrere quando alle 12 del 3 giugno i volontari della Protezione civile trovarono il corpo al termine di due giorni di ricerche: «Mi fu subito chiaro che Serena non era stata uccisa lì e quelle caviglie così strette mi sembrarono un eccesso di zelo, una messinscena», dice illustrando il video. Tra i rovi e le erbacce, in mezzo a televisori abbandonati, un Super Santos finito chissà come in un bidone rovesciato, spuntano i quaderni di scuola di Serena. La mattina in cui sparì sarebbe dovuta andare in classe più tardi per una visita dal dentista. Solo qualche giorno dopo, la ripulitura del campo farà emergere delle forbici, un nastro isolante e la tracolla della borsetta di Serena che invece non verrà mai trovata. «Si facevano tante ipotesi inverosimili — continua Tersigni — dal satanismo al suicidio per depressione, ma quando andai da Mottola proponendo di indagare con decisione nella cerchia dei conoscenti, lui fu sorpreso, quasi indignato: “Che cosa vuoi dire con questo?”, mi rispose». Le indagini furono condotte poi dalla compagnia di Pontecorvo assieme ai carabinieri di Arce, escludendo la stazione di Fontana Liri: «Chiesi invano un briefing ma Mottola si mosse per conto proprio». E come fatto emergere dall’avvocato di parte civile Federica Nardoni, la testimonianza della donna che l’1 giugno vide Serena sulla Y10 bianca di Marco Mottola, venne trasformata nella generica segnalazione di una Lancia Y, diversa per forma e modello. Secondo l’accusa, la 18enne voleva denunciare per spaccio il figlio del maresciallo, con cui condivideva la comitiva.

La seconda testimonianza è dell’ex maresciallo Francesco Gaudio, in servizio al Nucleo radiomobile di Pontecorvo e coinvolto nelle prime ricerche da Antonio Mollicone, suo amico. «La notte dell’1 giugno andammo a casa di Serena con il papà Guglielmo e Mottola in cerca, invano, di un biglietto che spiegasse la scomparsa. Quando poi trovarono il corpo, che sembrava un manichino abbandonato, tornammo nella sua stanza in cerca della canottiera con cui sarebbe uscita di casa. Guardammo in tutti i cassetti ma non c’era. Giorni dopo, al termine di un’altra ispezione alla quale non partecipai, venne ritrovato negli stessi cassetti il telefono di Serena e io redassi un verbale per dire che nella prima ispezione non c’era. E Quatrale (l’altro carabiniere imputato per concorso in omicidio e istigazione al suicidio del collega brigadiere Santino Tuzi, ndr) trovò una piccolissima pietra di hashish, anche quella mai emersa prima». Per firmare il verbale di ritrovamento del telefono il papà di Serena, Guglielmo, fu prelevato dai carabinieri di Arce durante la veglia funebre e tenuto in caserma tre ore. Anche su di lui si addensarono allora i sospetti, ma era solo una delle tante false piste di questi venti anni. corriere.it