Scandali sessuali e abusi di potere, tutto quello che si nasconde dietro una cattedra

di Maddalena Mizzoni

Nelle aule delle università italiane, dove la conoscenza dovrebbe essere veicolo di emancipazione e crescita, si celano ombre inquietanti che ci mettono davanti a interrogativi ancora più inquietanti:
fino a dove si spingono le dinamiche di potere tra i sessi?
Da Roma a Torino, scandali sessuali e abusi di potere hanno macchiato la reputazione di istituzioni
secolari, sollevando un velo di dubbi sulla vera natura delle dinamiche interne. La questione,
tuttavia, trascende i casi singoli, svelando un sistema accademico che, anziché proteggere, sembra
predare.
Alla Sapienza, le accuse non emergono solo dai corridoi dell’università ma anche dalle aziende che
ospitano i tirocini degli studenti, suggerendo che il problema trascenda i confini fisici dell’ateneo.
La rettrice Antonella Polimeni, dinanzi alla commissione Femminicidi, ha parlato di un impegno
dell’ateneo a garantire un ambiente sicuro e inclusivo, promettendo iniziative di sensibilizzazione.
Tuttavia, le testimonianze raccolte parlano di un ambiente dove il silenzio e la paura di ritorsioni
accademiche e professionali hanno troppo spesso soffocato le voci delle vittime.
La denuncia di oltre 130 casi di abusi all’Università di Torino aggiunge un ulteriore strato di
complessità alla questione, suggerendo che il problema sia endemico e non limitato a singoli istituti.
Gli studenti, armati di coraggio e spinti dall’esigenza di un cambiamento, si sono mobilitati per
chiedere un ambiente di studio sicuro e rispettoso, dove la dignità di ogni individuo sia garantita e
protetta.
Questi episodi aprono una finestra su un panorama allarmante: l’ambiente accademico, con la sua
gerarchia rigida e le sue relazioni di potere, riproduce e talvolta esaspera le dinamiche di genere più arcaiche e discriminatorie. Il rispetto e la sicurezza, diritti fondamentali di ogni individuo, vengono compromessi da un sistema che, paradossalmente, dovrebbe promuovere l’uguaglianza e l’integrità morale.
La reazione delle università, pur improntata alla risoluzione e alla prevenzione, solleva interrogativi sull’efficacia delle misure adottate. Iniziative come la creazione di comitati di garanzia e la proposta di corsi sull’argomento sono passi nella giusta direzione ma risultano insufficienti se non supportati da un cambiamento culturale più ampio e profondo.
La questione centrale diventa quindi: come può un’istituzione educativa che terrorizza e abusa mantenere la sua legittimità e la fiducia della comunità accademica e studentesca?
Sarebbe riduttivo, oltre che offensivo nei confronti delle vittime stesse, pensare che l’effetto più
evidente per gli atenei sia il danno alla reputazione reputazione.
Questi scandali mettono in luce la necessità impellente di riformare un sistema che sembra fossilizzato su modelli patriarcali, dove il potere accademico può facilmente trasformarsi in autoritarismo. Gli episodi di abuso e molestia non sono meri incidenti di percorso, sono sintomi di una malattia sistemica che richiede un trattamento radicale.
La riflessione sull’accaduto non può limitarsi a una semplice condanna morale degli abusi, ma deve spingersi a esaminare profondamente la struttura stessa delle istituzioni educative e le dinamiche di potere che le permeano. Se l’educazione diventa un veicolo di diffusione di violenza e aggressioni anziché di crescita, la domanda inevitabile è: chi sono i veri “campioni” di questo sistema? Su cosa si basa il cursus honorum del mondo accademico? Cosa viene premiato in un sistema così malato?
L’eccellenza accademica o la capacità di adattarsi e sottostare alle macrostrutture esistenti,
diventando complici delle quotidiane micro-aggressioni?
Le risposte a queste domande io non le ho e probabilmente neanche voi, sono però sicura che le
centinaia di donne che hanno denunciato queste ingiustizie un’idea ce l’abbiano.