Più costoso dell’oro, a Napoli il “blu oltremare” del principe di Sansevero

Letterato, editore clandestino, primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, ma più di tutto magnifico inventore. E passino la «Carrozza marittima», l’antenato del più moderno pedalò, il palco teatrale pieghevole, il cappotto impermeabile o i farmaci prodigiosi. Quello che «Haravec», soprannome che Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (Torremaggiore 1710- Napoli 1771) adottò per sé ricorrendo all’antica lingua peruviana degli Incas, sperimentò più di ogni altro e soprattutto prima di chiunque sono le pietre preziose artificiali. Il lapislazzuli, per esempio.
Più di cinquant’anni prima che Jean-Baptiste Guimet, chimico francese, sintetizzasse, era il 1828, quel prezioso blu oltremare, pigmento estratto dalla pietra, più costoso dell’oro. Lo conferma una singolare ricerca dell’Università di Bari «Aldo Moro», firmata da Francesco Paolo de Ceglia insieme con Andrea Maraschi, da stamane online (https://brill.com/view/journal/nun/aop/issue.xml) con il titolo di In search of the Phoenix in eighteenth century Naples. Raimondo di Sangro, nature mimesis and the prodution of counterfeit stones between palingenesis, alchemy, art and economy. L’inchiesta pubblica analisi e dati in grado di confermare che il Principe di Sansevero riuscì davvero, al di là delle ipotesi suggestive, a creare il blu oltremare (colore massonico per eccellenza) utilizzandolo per la cornice intorno all’altorilievo soprastante l’altare maggiore della Cappella Sansevero che ancora oggi, dopo oltre duecentocinquanta anni risplende della stessa intensità come se il tempo non l’avesse sfiorata.
I colori, autentica passione. Quel gran genio del di Sangro dedicò tempo e energie a quelle miscele di pigmenti utilizzati per la volta della Cappella, dipinta da Francesco Maria Russo, raggianti di oro, azzurri e verdi. Nei laboratori sotterranei del suo palazzo, il principe sperimentò con ingegno, nei più vasti campi della scienze e delle arti, l’imitazione della natura, nel tentativo, spesso riuscito, di renderla ancora più perfetta, volutamente più impressionante. Animato da puro narcisismo scientifico, Raimondo, influencer ante litteram, giocava a stupire, anche un po’ a imitare Dio, inseguendo la palingenesi come resurrezione spirituale alimentando quel mito un po’ noir che aleggia sulla sua figura e su il tutto il Settecento. Nell’assoluto convincimento che morire al mondo degli inganni significasse rinascere al mondo della sapienza. Un mondo di segreti che come scrisse Giuseppe Maria Galanti «o sono morti con lui, o giacciono ignoti in qualche angolo della sua casa». Fino alle notizie di ieri.
Ma come si è arrivati a quest’ultima scoperta? L’indizio c’era. Un dettaglio quasi trascurabile nelle pagine di un’antica e famosa guida della città di Napoli, quella dello storico Pompeo Sarnelli. Ipotesi: bisognava trovare le prove. La pistola fumante, complici i lavori di restauro dell’estate scorsa che hanno consentito la possibilità di analizzare con precisione i materiali, i ricercatori l’hanno trovata nella cornice che circonda l’altorilievo dell’Altare che Francesco Celebrano e Paolo Persico edificarono nella seconda metà del XVIII secolo. Con tecniche avanzate e assolutamente non invasive, senza minimamente danneggiare l’opera, ecco affiorare il lapislazzuli del principe. È il primo esempio, documenta la ricerca, della produzione di quel pigmento artificiale. Non è l’unica scoperta presentata ieri alla stampa. C’è del cinabro, il vermiglione, quel rosso vivissimo finanche sul cappello della statua di Sant’Oderisio. Un tempo splendente di lucentezza adamantina, oggi ingrigito dal tempo. E soprattutto c’è l’uso insolito della fluorite come materiale scultoreo per il cuscino sottostante. Così come per il cuscino della statua di Santa Rosalia, entrambe realizzate da Francesco Queirolo nel 1756. Sono scoperte importanti che aprono la pista a nuove indagini. Le invenzioni del principe, c’è da giurarci, non finiscono qui. corriere.it