Ossigeno per l’anima, l’Isola di San Giulio

di Giuseppe D’Onorio

Lungo l’autostrada dei laghi A8, che abbiamo preso a Milano per raggiungere l’Isola di San Giulio ad Orta, un improvviso quanto violento temporale di fine agosto ci costringe ad accostarci sulla corsia d’emergenza e qui sostare per diverso tempo. Nel pomeriggio dobbiamo essere al monastero benedettino Mater Ecclesiae, dove ci attende l’abbadessa Madre Maria Grazia Girolimetto, ma la speranza di arrivare in tempo viene meno.

Giungiamo ad Orta quando il sole sta per tramontare. Raggiungiamo l’attracco dove ci si imbarca per l’Isola di San Giulio, ma i battelli di linea non compiono più corse. L’incontro con la madre abadessa, purtroppo, salta.

Un po’ amareggiati per l’inconveniente avuto durante il viaggio, ci rimane da osservare da lontano l’Isola, il grande complesso dell’abbazia delle benedettine e l’imponente torre campanaria che sembra toccare il cielo. Il lago è calmo e il cielo terso, libero da nuvole. Il sole che sta per concludere il suo percorso sprigiona una luce tra il rosso e il rosa che va ad accarezzare delicatamente la superficie delle acque, dando ad essa un aspetto tanto particolare che nessun pittore riuscirebbe a mettere su tela.

Il giorno dopo saliamo sul primo battello di linea per raggiungere l’abbazia. Sono le 9,00 in punto e partiamo. Pochi minuti e siamo già sull’isola. Il luogo ci accoglie avvolgendoci in un’atmosfera che ci entra dentro: domina il silenzio, che sostiene la contemplazione e dona pace interiore. Il centro irradiante di questo particolare clima spirituale è dato dalla presenza della comunità benedettina femminile dell’abbazia Mater Ecclesiae.

Ce ne aveva spesso parlato il preside Luigi Gulia, il quale nel 1991, durante la sua presidenza presso il liceo scientifico“Gobetti” di Omegna, nei momenti liberi si recava sull’Isola a respirare ossigeno puro per l’anima, incontrando le monache e l’allora abbadessa Anna Maria Cànopi; al ritorno verso la riviera portava con sé i “paniculi”, dolci di farina, uvetta e altri ingredienti occasionali, confezionati dalle monache per i pellegrini.

Attraversiamo il bel portale cinquecente- sco, un unico ingresso all’isola, e subito dopo troviamo un’ampia scalinata che conduce al portale sud della basilica. Non saliamo; un cartello avverte che l’apertura è alle ore 9,30. Ci rechiamo allora nella portineria del mo- nastero per chiedere della madre abbadessa. Con lei vogliamo soffermarci a parlare della forza attraente delle benedettine dell’Isola di San Giulio e anche avere notizie inerenti la nostra ricerca sulle campane monastiche. La monaca portinaia ci avverte che la madre al momento è occupata e ci invita a tornare più tardi.

Ci dirigiamo verso la basilica e saliamo la scalinata. Entrando, un tripudio di colori, messi in risalto dalla luce che penetra nella chiesa, colpisce la nostra vista. Schiere di sante e santi sono affrescate sui pilastri, sulle pareti e sulle volte dell’edificio sacroche non è di grandi proporzioni. Nella volta centrale del transetto è raffigurata l’ascesa al cielo di San Giulio, mentre nel catino dell’abside centrale, al di sopra del coro ligneo, domina la Trinità. Un ambone del XII secolo, di marmo serpentino grigio-verde, si lascia ammirate per la sua splendida bellezza e per l’enigmatica presenza di una figura ancora non bene identificata. Scendiamo nella cripta della basilica, dove sull’altare in marmo nero, in un’urna di cristallo e argento, è gelosamente custodito il corpo di San Giulio. È qui che batte il cuore dell’Isola e ci raccogliamo in preghiera.

Un’occhiata all’orologio… occorre tornare in portineria. Lasciamo la basilica ripromettendoci di approfondire la conoscenza dei tesori che essa contiene leggendo attentamente la guida, curata dalle monache, che abbiamo trovato nella angusta, ma fornita rivendita presente sull’Isola.

La monaca portinaia ci attende e ci avverte che nella giornata non sarà possibile incontrare la madre. Rimaniamo un po’ disorientati, ma poi ce ne facciamo una ragione e capovolgiamo questa situazione di imbarazzo in cui ci siamo venuti a trovare a causa del violento temporale del giorno prima e ne facciamo un’opportunità. Per comprendere maggiormente la sacralità del luogo non abbiamo bisogno di proferire parole, di scambiarci pensieri. Occorre solo predisporre l’anima all’ascolto e cogliereogni minimo segno che il luogo ci offre. Ed è ciò che facciamo.

Percorriamo l’unica stradina che gira intorno all’isola, chiamata la “via del silenzio”, segnata da aforismi che consentono al visitatore di rientrare in sé e di abbandonare la fretta che la società odierna impone. Alziamo lo sguardo e iniziamo a leggere: “ascolta l’acqua, il vento, i tuoi passi…”; “ogni viaggio comincia da vicino”; “quando sei consapevole il viaggio è finito” e così via. I temi per riflettere ci sono e così, avvolti da un’infinità di pensieri che si affacciano nella mente, ci ritroviamo nel punto in cui era iniziato il percorso. In questo occhio di terra circondato da acque, le monache guidate dalla Regola di San Benedetto, imperniata sull’opus Dei e sul lavoro, sono alla ricerca totale di Dio, come recita il salmo “Il tuo volto, Signore, io cerco” (27,8).

Per non anteporre nulla a Lui si sono separate da tutto ciò che è profano o meglio “impuro”, usando il termine biblico. Tuttavia la loro separazione non è da intendere come un atto di isolamento. Qui incontrano la Sapienza perché l’amano; qui loro si levano di buon mattino e non faticano a trovarla; la Sapienza è “seduta alla sua porta” ad attenderle (Libro della Sapienza 6,12-16).

Era l’ottobre del 1973 quando 6 religiose ed una postulante, provenienti dal monastero di Viboldone, alle porte della città di Milano, risposero all’invito del vescovo di Novara mons. Aldo Del Monte1 e si stabilirono nell’Isola raccogliendo il seme evangelico gettato nel IV secolo d. C. dal prete greco Giulio. Guidate dalla Madre Anna MariaCànopi, figura carismatica e dalla profonda spiritualità, quel piccolo nucleo di donne andò ad abitare nel vecchio palazzo episcopale messo a loro disposizione.

Scrive la prima religiosa arrivata dopo la fondazione: «Tutto sembrava enorme, smisurato. Le celle erano collocate in ampiestanze prive di arredamento, con i soffitti a cassettoni: uno strano miscuglio fra l’agiatezza d’altri tempi e la nostra povertà,avara perfino dell’indispensabile».

Le difficoltà inziali furono tante, ma per la Madre Cànopi questi disagi facilitarono l’attuazione dell’Ora et Labora3 e in breve tempo l’abbazia divenne un faro per molte anime in cerca di senso. Il numero delle religiose che aumentava sempre di più fece sorgere un nuovo problema: gli spazi dell’episcopio che inizialmente erano eccessivi, ora non erano più sufficienti; occorreva una nuova e più idonea locazione. Venne così messo a disposizione della comunità il grande palazzo ottocentesco che fino al 1946 aveva ospitato il seminario diocesano. Per le monache il trasloco fu come il passaggio a Sion4. Occorrevano consistenti lavori di ristrutturazione, ma pian piano e con grande fatica, l’edificio venne ad assumere l’aspetto di un vero e proprio ambiente monastico.

Fin dall’inizio della loro presenza sull’Isola di San Giulio, le benedettine si caratterizzarono non solo per la preghiera e la contemplazione, ma anche per un tipo di lavoro culturale ed artigianale innovativo, sempre nel solco della tradizione monastica. Iniziarono a studiare e a tradurre testi antichi, a pubblicare sussidi per la Lectio divina, a confezionare paramenti sacri, a dare vita ad un laboratorio di restauro di tessuti antichi e a scrivere icone. Attività, queste, che vengono eseguite ancora oggi.

Il nostro ripercorrere le tappe di vita dell’abbazia benedettina femminile sul lago d’Orta viene distolto d’un tratto dal suono della campana che annuncia l’Angelus. Manca un minuto circa a mezzogiorno, ma i tocchi della basilica di San Giulio, in quanto chiesa matrice della riviera, devono dare l’incipit agli altri suoni che si sprigionano dai campanili delle chiese che gravitano intorno al lago. Anche questa consuetudine nell’isola si deve alla Madre Cànopi, che verso le campane, poi, mostrava un’attenzione e un amore particolare.

Ci avviciniamo alla possente torre campanaria, le cui prime notizie risalgono al XIV secolo5. Dal basso notiamo che nel piano terminale del campanile, sono alloggiate ben 9 campane, otto delle quali fuse ai primi anni del secolo scorso dalla ditta Mazzola Luigi di Valduggia (VC)6 e solennemente battezzate il 29 giugno 1907; alcune di esse vennero dedicate ai santi dell’isola: Elia, Filiberto, Audenzio, Demetrio, Giulio.

Il suono che ci ha richiamato all’Angelus di mezzogiorno proveniva dal nono bronzo7; la sua voce si espande sull’isola e d’intorni anche alle 6,30 del mattino e alle 19,00 di sera o alle 20 quando subentra l’ora legale.

Tutti i rintocchi che provengono dal campanile rendono il monastero più monastero. Che senso avrebbe esso se non ci fossero le sonore campane? Sono i bronzi che rendono sacro il tempo del chiostro e danno alla preghiera e al lavoro quell’aspetto qualitativo che i greci indicavano con il termine “kairos” e che va al di là del “cronos”, dalla caratteristica quantitativa. Ed è ciò che il filosofo Herny Bergson, rappresentante dello spiritualismo francese, esprimerà con i termini “tempo interiorizzato” e “tempo spazializzato”. E poi non sono forse le campane, dall’alto dei campanili, a legare il cielo e la terra, il divino e l’umano? E quando ciò avviene i suoni diventano preghiera e poesia. Ecco cosa scrive delle campane la madre Cànopi:

Campane,
voce di Dio
che parla al cuore dell’uomo credente
e non credente. Campane:
voce di festa,
voce di pianto,
musica di cielo. Nessuno può sottrarsi
a questa voce che invita a sollevare il capo,
ad affrettare il passo. Campane:
suoneranno per me nell’ora dell’addio
a questo mondo
per tornare a Te,
fonte della vita
nel segno della festa senza fine8.

E così è stato. Il 21 marzo 2019 alle ore 10,00 le campane dell’abbazia Mater Ecclesiae hanno suonato per la dipartita terrena della madre fondatrice. Un suono non lento e cadenzato come quello solito che annuncia una morte, ma un suono a festa, perché nel suo dies natalis l’abadessa Cànopi ha potuto vedere, nella sua totale bellezza, il volto del Signore che tanto ha cercato in terra.

Tocchiamo con mano, prima di riprendere il viaggio di ritorno, che la comunità monastica non è orfana ma degna erede degli insegnamenti della Madre Anna Maria Cànopi e continua a parlare con Dio e di Dio. E il suono delle melodiose campane dell’abbazia contribuiscono a svolgere tale compito.