Eroe italiano, impiccato e gettato in una fossa comune

«C’è lavoro pel boia, vecchio Sire d’Absburgo!» Vibra di indignazione contro Francesco Giuseppe, l’anonimo corsivista del «Corriere» in quell’estate di un secolo fa: «La forca austriaca non vuol rimanere oziosa. Non può! Appena un eroe è spirato a Trento dal suo legno maledetto, un altro spira a Pola». Prima Cesare Battisti ora Nazario Sauro. Tutti gli italiani, in quei giorni di guerra, sanno chi è Nazario. È così famoso che nel decimo anniversario dell’impiccagione lo Stato sarà costretto a comprare la sua casetta natale a Capodistria perché «gli attuali inquilini ricevevano, da anni, ogni giorno, le visite di pellegrini che chiedevano di veder i cimeli di famiglia». Ma cosa resta, oggi, di quell’irredentista dimenticato? Centinaia di vie e di piazze intitolate a testimonianza di uno stagionato culto patriottico. Una figurina in vendita su eBay col disegnino del naufragio del sommergibile sulla costa del Quarnero. Una miriade di scuole: «Istituto Nazario Sauro, patriota». Poco più.

Figlio di un pescatore di origine laziale, battezzato col nome della barca di famiglia, di carattere esuberante, generoso, combattivo, studente svogliato ma con spiccate doti per la marineria (narra la leggenda che la levatrice sussurrò al neonato: «Picinin, ricordite che chi vol navigar no devi ’ver paura de le onde»), il ragazzo si fece conoscere presto dai poliziotti austriaci. Per l’ostilità verso l’apprendimento del tedesco e dello sloveno. Per lo spirito ribelle. Per aver inscenato una manifestazione nel centenario della nascita di Garibaldi cantando l’Inno di Garibaldi: «Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori che è l’ora! Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori, stranier!», per l’appoggio agli indipendentisti albanesi, aiutati «garantendo gli approvvigionamenti d’armi» sfidando coi suoi trabaccoli da pesca i controlli dell’imperiale marina. Per alcune intemperanze inutilmente esagitate, come le urla lanciate per interrompere un concerto di Richard Wagner: «Basta con questa musica tedesca!».

Portati la moglie e i figli a Venezia nel 1914, si offre volontario per la guerra in arrivo. Curriculum: conosce «a menadito tutta la costa dell’Istria e della Dalmazia, il Quarnero, le isole, ogni porto e ogni secca, ogni rifugio e ogni scoglio». In attesa di essere arruolato, accorre coi primi volontari ad Avezzano dopo il sisma del 13 gennaio 1915 e, rientrato a Venezia, si ficca in tutti gli assembramenti dove si parla di patria, guerra, terre irredente. Fino a scagliarsi al Caffè Quadri, ignaro che mesi dopo l’irridente invettiva gli sarebbe stata rinfacciata al processo, contro il Kaiser: «Quel mona de vecio ormai el xe insempiado». Cioè rimbambito.

Scoppiata la guerra, guida una dopo l’altra decine e decine di spericolate incursioni sulle coste dell’Istria e del Quarnero, diventando popolarissimo tra i compagni d’arme e fastidiosissimo per gli austriaci. «Bassotto di statura ma largo di torace e di spalle come un atleta», lo descrive l’amico Giovanni Quarantotti, «troneggiava davvero sul ponte di comando, dall’alto del quale soleva, come un oratore sacro dal pergamo, scagliare a dritta e a manca, con quel suo vocione stentoreo, ordini, lodi, rimproveri, facezie, a seconda delle circostanze e dell’umore, usando sempre il saporoso dialetto natio e gesticolando con l’energia e l’infaticabilità di un semaforo».

Alla sessantaduesima spedizione, dopo avere ricevuto una medaglia d’argento per le «numerose ardite difficili missioni navali», gli andò male. E col sottomarino «Pullino» finì sugli scogli dell’isolotto della Galiola, all’imbocco del Quarnero. Era la notte del 30 luglio 1916. Per ore, dopo aver mandato due piccioni viaggiatori per segnalare il naufragio e chiedere aiuti, gli italiani cercarono di disincagliare il sommergibile. All’alba, recuperate due barche, decisero di disperdersi. Inutile.

Catturato, Nazario Sauro fu portato a Pola. Aveva in tasca un biglietto con quattro strofe: «Finché il trionfo ti sorrida e sia/ tutto di lauri il tuo vessillo altero/ e seguan le vittorie la tua scia/ sovra il mar di Trieste e del Quarnero». Non aveva scampo. E lo sapeva. Lo attendeva la forca. E per giorni, anche se qualche polesano l’aveva subito riconosciuto all’arrivo, tenne duro negando: «Mi chiamo Nicolò Sambo». Perfino la madre Anna e la sorella Maria, nel tentativo di salvarlo, negarono fino all’ultimo di conoscerlo. Annotò un ufficiale austriaco: «Durante il confronto la donna ha cambiato di colore nel viso, divenendo rossa e pallida». Finché il fratello della moglie, un maresciallo, ammise: «È mio schwager, mio cognato».

Il processo è solo una formalità burocratica. L’imputato chiede un avvocato di fiducia. Negato. Gliene danno uno d’ufficio, un sottotenente austriaco, Josef Takacs. Il verdetto è implacabile: «Colpevole di alto tradimento per essere entrato, come suddito austriaco, nella marina da guerra italiana». Impossibile ogni ricorso: la sentenza va eseguita entro due ore. Va incontro al patibolo, raccontano le cronache, urlando «Viva l’Italia! Morte a Francesco Giuseppe… Morte all’imperatore degli impiccati, mascalzone!». Una guardia gli mette una mano sulla bocca per zittirlo, lui gliela morde. Rifiuta il prete tedesco: meglio pregare da solo.

«Cara Nina, non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque figli ancora col latte sulle labbra e so quanto dovrai lottare e patire per portarli e lasciarli sulla buona strada», leggerà la moglie in una lettera lasciata dal marito a un amico in caso di morte, «Insegna ai nostri figli che il loro padre fu prima italiano, poi padre e poi uomo. Nazario».

Buttano la salma, ultimo insulto, in una anonima fossa sconsacrata, subito coperta e resa irriconoscibile. Ma è solo la prima sepoltura. Nel 1919, le autorità italiane riescono a individuare la fossa, celebrano una solenne cerimonia e danno all’eroe, medaglia d’oro al valor militare, una nuova tomba, monumentale. Resterà lì meno di trent’anni. Persa la Seconda guerra mondiale, gli italiani in fuga da Pola, caricheranno nel 1947 sul «Toscana», la nave dei profughi in lacrime, anche la bara di Nazario Sauro, destinata per la terza sepoltura al Lido di Venezia. E quella bara appesa ai cavi di una gru resterà uno dei simboli della tragedia dell’esodo… corriere.it