Brusca torna in libertà, ’u verru ha detto di aver commesso oltre 150 omicidi

Il fine pena è arrivato puntuale, lento ma inesorabile: trent’anni di carcere, che con la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti — 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella, unico beneficio concesso anche ai mafiosi — sono diventati venticinque. E così Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Jato che era nel cuore di Riina, l’artificiere che fece esplodere la bomba di Capaci, arrestato nel 1996, è uscito lunedì per l’ultima volta dal carcere romano di Rebibbia. Libero, seppure con qualche residua limitazione e sempre sotto protezione, inserito a pieno titolo nel programma per la sicurezza dei pentiti.

Perché questo ha consentito all’esecutorie materiale della strage di Capaci, l’assassino di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta di non morire in galera come gli altri boss di Cosa nostra che decisero quello e altri eccidi, e centinaia di omicidi: la collaborazione con la giustizia. Brusca i delitti commessi non riusciva nemmeno a contarli, per quanti erano. Ma grazie alla decisione di confessare, denunciare e far condannare gli altri mafiosi, capi, sottocapi e gregari, ha evitato l’ergastolo; trent’anni sono tanti, ma hanno comunque un termine, e adesso quel termine è arrivato.

Il leader della Lega Matteo Salvini accusa: «Non è la giustizia che l’Italia merita», mentre Maria Falcone, sorella di Giovanni, commenta: «Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata». Ma Brusca è l’ultimo pentito della strage a uscire; gli altri che contribuirono a far saltare in aria l’autostrada Palermo-Punta Raisi e che subito o quasi scelsero la via della collaborazione, sono liberi da tempo: Gioacchino La Barbera, Santino Di Matteo e non solo. 

Di Matteo fu il primo a confessare, nell’autunno del ’93; per vendetta gli rapirono il figlio Giuseppe appena dodicenne, tenuto segregato per oltre due anni, poi ucciso e sciolto nell’acido. Per ordine di Giovanni Brusca. Era l’inizio del ‘96, al killer chiamato ’u verru, il porco, erano rimasti pochi mesi di libertà. Lo presero il 20 maggio di quell’anno, in provincia di Agrigento, dopo alcuni tentativi falliti in cui agli investigatori erano rimaste in mano solo le camicie firmate che a Brusca piaceva indossare, abbandonate nella fuga. Quella volta invece centrarono l’obiettivo, e il boss non ancora trentenne (è nato il 20 febbraio 1957) venne catturato assieme al fratello Enzo, altro manovale dei Corleonesi, altro pentito libero da tempo.