Aumenta il rischio attentati. L’Italia che fa?

Peace-keeping, peace-making, peace-enforcing. Siamo da tempo in guerra ma in Italia si ha il timore di nominare questa parola. Guerra. Non siamo statunitensi, spesso apostrofati “guerrafondai” ma neppure svizzeri, neutrali per natura. Il suolo nazionale è stato ripetutamente teatro di guerre, ultime, in ordine cronologico, la seconda guerra mondiale e la guerra civile. Difficile trovare un comune d’Italia che nei secoli non abbia partecipato a qualche conflitto. Nonostante ciò si battono i denti ogni volta che bisogna pronunciare queste sei lettere. Emergono così termini inglesi, pur di respingere il sostantivo guerra. Solo all’apparenza. Perché sia chiaro, peace-keeping, peace-making, peace-enforcing non sono delle scampagnate ma spedizioni militari. Allora, visto che siamo in guerra o meglio che hanno dichiarato guerra a noi, mostriamo ai tagliagole di essere figli della Gens Iulia. Abbiamo il coraggio di parlare di guerra, evitando di annegare nel mare magnum della legalità internazionale che sta diventando un assillo. Certo, con cautela ma l’Italia deve essere guidata dagli interessi nazionali e dalla difesa dei confini prima di tutto. L’Italia non deve attendere e a nessuno deve chiedere il permesso, a maggior ragione per difendersi e non per attaccare. Chi ignora la grandezza della civiltà romana non è avvezzo alla diplomazia, chi scanna essere umani, donne e bambini compresi, come fossero maiali non è dedito al dialogo. Chi semina terrore deve essere fermato. Con la guerra